Cedro di Calabria
Tutto quanto di relativo al Cedro, celeberrimo frutto del territorio dell'alto tirreno cosentino.
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“Perì ‘etz adar,”
il frutto dell’albero più bello,
è così che nella Bibbia viene
chiamato il frutto del cedro.
“... prenderete i frutti dell’albero
più bello, dei rami di palma e
dell’albero più frondoso, dei salici
del torrente e vi rallegrerete
dinnanzi al Signore Dio vostro”
(Lev. 23,40) Fu Jahvé ad indicare a Mosè il frutto dell’albero più bello, frutto che secondo le tradizioni ebraiche divenne fondante della “Festa delle Capanne” (Sukkoth). Gli ebrei lo conobbero durante il lungo soggiorno in Egitto, di circa quattrocento anni. Poi, durante l’Esodo, al tempo di Mosè divenne il Perì ‘etz adar. La diffusione nel Mediterraneo del cedro è probabilmente opera loro: ne sono prova diverse tracce archeologiche. Da documenti posteriori al Pentateuco si apprende che fino all’epoca del II Tempio, dopo la liberazione dalla cattività babilonese, ad opera di Ciro il Grande (550 a.C.), non tutti gli ebrei fecero ritorno in Palestina e molti di essi si spostarono in diversi paesi, come prova il Tempio di Jahvé del 525 a.C. nell’isola di Elefantina. Questi ebrei conservarono, ovviamente, le loro abitudini e i loro riti religiosi. Tali fenomeni di migrazione, soprattutto, verso i territori siriaci, dell’Asia Minore ellenizzata e della Grecia, divennero maggiormante intensi nel corso del III sec. a.C. quando la lingua ebraica sparì per lasciare spazio all’imponete greco. Queste migrazioni, dalla Grecia, portarono gli ebrei a toccare la Turchia, l’Albania e la corinzia Corfù, dove le tracce archeologiche risultano essere abbondanti. L’ipotesi di questa diffusione, ad opera degli ebrei del cedro, è anche ampiamente confutata da Flavio Giuseppe, il più autorevole scrittore di cose ebraiche, il quale sostiene che nel III sec a.C. in tutto il bacino del Mediterraneo era abbondante la presenza ebraica. Inoltre, verso il III, II a.C., secondo il rabbino Toaff, Rabbino capo della Comunità Israelitica di Roma, gli ebrei, seguendo le rotte achee arrivarono nella penisola italica, presso le colonie di Metaponto, Sibari e Crotone sullo Jonio e Laos e Posidonia sul Tirreno. Tale remota presenza in Italia, in Italia degli ebrei, è, inoltre, testimoniata sia dal viaggio nel 164 a.C., di Eupolemo e Giasone, ambasciatori dei Giudei, i quali furono ricevuti da una nutrita colonia di giudei elleni della capitale; sia dai ritrovamenti del Prof. Casella a Pompei ed Ercolano di pitture murali e mosaici raffiguranti il cedro e gli elementi sacri che servivano a celebrare la Festa delle Capanne. Insieme con questi ritrovamenti ricordiamo anche le scoperte nelle catacombe ebraiche di via Nomentana e dell’Appia nonché quelle nella sinagoga di Ostia Antica (I-IV sec. d.C.) di questi simboli del Sukkoth, a riprova di una importante e duratura presenza in Italia di comunità ebraiche. Per meglio comprendere, il ruolo del cedro nelle tradizioni ebraiche, è il caso di fare un po’ di luce su questo popolo.
Presso gli ebrei tre sono le grandi feste religiose di pellegrinaggio: quella della Pasqua ebraica (Pesach), quella della Pentecoste (Shavuot), e quella delle Capanne, detta anche dei Tabernacoli (Sukkoth). Tutte e tre le feste hanno una dimensione storica di commemorazione dell’Esodo, ma celebrano altrettanto le tre stagioni del raccolto agricolo nella terra d’Israele. La Pesach è, così, la festa della libertà, che ricorda la liberazione degli israeliti dalla schiavitù dell’Egitto e si proietta verso la redenzione finale del mondo nell’epoca messianica. È anche, però, il tempo della raccolta dell’orzo (omer) e la fine della stagione delle piogge. Essa,dato il suo significato, cade sempre in Primavera. Per tutta la durata della festa è proibito mangiare pane lievitato e un giorno prima che la festa inizi tutto il lievito viene eliminato dalle case, dopo un ricerca minuziosa di ogni singola briciola nascosta, come ricorda Unterman, in ogni singola fessura. La festa dura sette giorni (otto nella diaspora) e comincia la sera del quindici di nisan (fine marzo, inizi di aprile), la notte dell’esodo, con un seder (cena familiare) accompagnata dal racconto dell’Esodo. La fine di Pesach ricorda il momento in cui gli israeliti attraversarono il Mar Rosso, e poiché la loro salvezza comportò l’annegamento degli egizi, i salmi dell’hallel vengono recitati in forma abbreviata.
Sette settimane più tardi viene celebrata la Shavuot (Pentecoste). È la festa del raccolto del grano. Viene letto il decalogo nella sinagoga, decorata con piante e fiori, per ricordare che il Monte Sinai, una montagna secca ed arida, si riempì di fiori in occasione della Rivelazione, mentre l’intera congregazione sta impiedi. A Shavout c’è la diffusa celebrazione dell’hallel (salmi).
La festa del Sukkoth (Festa delle Capanne), celebrata intorno alla prima quindicina di ottobre, è, invece, nel suo originario carattere agricolo, la festa di fine raccolto, della gioia per il lavoro compiuto e per i frutti raccolti. Per una settimana gli ebrei, costruitasi una Capanna (sukkà) all’aperto, con materiali vegetali, non fissata al suolo e con un tetto che permetta loro di vedere il cielo, a ricordo dell’Esodo dall’Egitto, durante il passaggio nell’inospitale deserto, a memoria della protezione che Dio concesse al suo Popolo, devono abitarla.
Durante questi sette giorni, ad eccezione del sabato, devono agitare in ogni direzione un mazzetto, che tengono nella destra, composto da un ramo di palma dattifera (lulàv), due rami di salice di fiume (aravà) e tre rami di mirto (hadas), mentre recano, nella sinistra, un frutto di cedro (etrog). Tutto ciò secondo quanto prescritto nel Levitico “ora il quindici del settimo mese, quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa al Signore per sette giorni… il primo giorno prenderete frutti dagli alberi migliori: rami di palma, rami con dense foglie e salici di torrente e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni…Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che Io ho fatto dimorare gli Israeliti in capanne, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto…”.
Secondo una tradizione allegorica ogni elemento indicato per la festa, rappresenterebbe un peccato da cui fuggire: la palma, eretta e diritta, paragonabile alla colonna vertebrale umana rappresenterebbe il peccato dell’orgoglio che fa sollevare la testa; il mirto, le cui foglie ricordano l’occhio, simboleggerebbe quello della curiosità di chi si guarda attorno con invidia; il salice, la cui foglia, invece, ricorda una bocca, quello della maldicenza; mentre il cedro, con la sua forma che ricorderebbe un cuore, dovrebbe indurre a confessare i peccati compiuti. Al contrario, secondo una interpretazione del Talmùd i quattro elementi indicherebbero ciascuno una qualità di quattro diversi tipi umani: la palma , con il dattero che ha sapore, ma non odore, ricorderebbe chi alla saggezza non fa seguire le opere; il mirto, dal buon profumo, ma senza sapore, indicherebbe gli uomini che agiscono, ma senza saggezza; il salice, privo del profumo e del sapore, rappresenterebbe chi è privo sia di saggezza che di opere; ed infine, il nostro etrog, frutto dal buon odore e dal buon sapore, chi alla saggezza fa seguire opere altrettanto sagge. Inoltre, la conoscenza del cedro presso il mondo greco, data dalle testimonianze prima dette, e cioè, dall’arrivo di alcuni ebrei nel mondo ellenico già a partire dal VI a.C., ma, più tardi, soprattutto, da Teofrasto, ci permettono di fare un’ulteriore considerazione: la conoscenza di un frutto, considerato, dallo stesso Teofrasto, non commestibile, in una epoca così antica, in cui le fonti di sostentamento erano essenziali e primarie, la conoscenza precisa dei metodi di coltivazione di quest’agrume, ci inducono a sostenere che essa dovesse essere importante per altre ragioni. E quali ragioni potrebbero esser più valide se non quelle di un uso sacro di tale frutto? Vasto è inoltre l’uso letterario di questa pianta: sacra, esoterica, di un profumo ineffabile, struggente ed ammaliante. E’ citata settantadue volte nelle Sacre Scritture simbolo di alleanza. Tanto è preziosa questa pianta, agli occhi degli ebrei, da essere magnifica, da dover essere custodita gelosamente perché vicina a Dio per le sue altezze, per le sue imponenti e forti fronde, per i sui fusti che si innalzano al cielo liberi. Simbolo di un ricordo che dura tutta la storia di un popolo, quello d’Israele. Ogni estate, i rabbini di moltissime comunità israelitiche, da Londra a New York vengono sulla Riviera per raccogliere il frutto più bello, il Cedro di Santa Maria del Cedro. Gli agrumi migliori sono indispensabili alla loro festa. La raccolta è meticolosa e la scelta viene compiuta tenendo presenti le prescrizioni della tradizione: il frutto deve essere di una pianta non innestata al quarto anno di produzione; deve essere sano, di buona forma conica, di colore verde, con l’apice sano, che conservi la vestigia del fiore e deve recare un pezzo di peduncolo.
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La Cittadella Industriale si propone di essere il centro economico del Consorzio.
Infatti, scopo preciso è quello di occuparsi della trasformazione del Cedro di Santa Maria del Cedro in prodotto della gastronomia: dalla pasticceria alle marmellate, ai liquori e alle creme al cedro. Inoltre, la struttura si sforza di creare sinergie con altre aziende presenti nel territorio, per promuovere e produrre altri prodotti quali, ad esempio, l’olio extravergine d’oliva aromatizzato al cedro. La Cittadella ha, dunque, lo scopo di formare una concreta Azienda di Trasformazione del cedro, perché ordinariamente, oggi, il nostro agrume, qui coltivato, viene trasformato altrove per poi, tornare anche sui nostri mercati, commercializzato a prezzi assolutamente altissimi. È, dunque, scopo del Consorzio favorire la nascita di questa catena di trasformazione che serve a sopperire a questa incresciosa assenza, creando, altresì, nuove possibilità di occupazione direttamente ed indirettamente legate alla produzione del cedro e alla sua trasformazione. Tale intervento garantisce inoltre un sostegno concreto a tutta l’economia della Riviera dei Cedri. A completamento di questo sistema nasce anche la fiera permanete del Cedro, spazio expò per la vendita all’ingrosso dei prodotti del Consorzio. Inoltre, è previsto un progetto di assistenza ai cedricoltori, anima essenziale del Consorzio. Assistenza che consiste nel mettere a loro servizio i risultati prodotti dal Centro Ricerche in ogni settore: quello dell’innovazione tecnologica, coltivazione e trasformazione, e quello del marketing e della commercializzazione. Questo garantisce sostenibilità e coerenza, migliorando il prodotto e controllando il rapporto qualità-prezzo. A corona di tale processo, il Consorzio si sta munendo del marchio D.O.P. per l’alta qualità dei propri prodotti, a garanzia dei cedricoltori e dei consumatori. Questa operazione nasce dalla consapevolezza di poter ottenere un prodotto che è capace di implementare l’immagine della Calabria anche all’estero e, più in generale, di proporre un prodotto annoverabile tra i nuovi simboli del “made in Italy”.